Sono storie di questi anni, STORIE di resistenza.

Resistenza alle razzie dei Pochi d’ogni spazio di esistenza e riflessione comune,
alle continue privazioni ed allo sfacelo degli insuccessi umani.

Resistenza ai canti di sirena del malaffare:
dalle rassicuranti nenie ipnotiche ai ritornelli accattivanti;
dai travolgenti ritmi di pistole e manganelli al suono atono dei tanti isolamenti.

Resistenza, ancora, alle pastoie di un presente sempre fine a se stesso e mai pago,
svuotato di qualsiasi ulteriore significato.

Ed infine, resistenza all’odio che non è pratico né poetico
e porta solo ad un tragico epilogo.

Achille e la Tartaruga 2002



Siamo in ottobre. Sono circa dieci minuti, 15,che procedo verso casa in bicicletta e questo procedere lento eppure fatto di guizzi, fatica certo, e cambi repentini di marcia mi pare possa funzionare come strategia per la vita in generale. La mia è una città che non conosce alture di sorta ed è il luogo ideale per pedalare leggeri, magari in tandem, con la donna che ami e tuo figlio nel cestello, tra prati in fiore e profumati carretti di frutta seguendo il dolce ondeggiare e… “uè, tr’mò! Ci Stà a ddurm?”…apostrofato in malo modo dal venditore d’ananàs, perché gli impedivo il passaggio tra le auto al semaforo,riapro gli occhi al mondo e riscopro il consueto inferno fatto di milioni di auto che, in modo convulso e frenetico, procedono strombazzando e spernacchiando fumi neri nell’aria (quella stessa che dovrebbe ossigenare i miei stanchi muscoli tesi). Giunto quasi a destinazione scorgo, dall’angolo di casa, qualcuno da evitare venirmi incontro, e, con abile manovra, lo evito. Fingo un inseguimento e non giro, solo che il finto inseguito è…Emanuele. Scapolo, quarantenne, ancora a casa coi suoi, iscritto a non so quale Facoltà, è l’unico dell’intero meridione, forse, a pranzare dalle 12 alla mezza. Fino alle quattro, poi, è lui il vero pericolo in strada: non sa che fare e adora chiacchierare. Vede che lo seguo, non crede ai suoi occhi, li sgrana, sbanda che quasi mi prende, sorride in modo sguaiato (credo sia il solo capace a farlo), mi ferma: “Aiuto!”. Io ho un difetto. Non riesco a dire di NO, a divincolarmi. Preferisco abbandonare me stesso, lasciarmi trascinare nel gorgo degli eventi. Sono ora come un terzo che osserva la scena del mio supplizio. Mentre un po’ tutti riposano già, solo si disperde rauco nell’etere dolce del primissimo pomeriggio, il racconto dell’ultimo capolavoro giapponese in onda sulle nostre reti: il cartoon dragonball che, come l’ascia al collo del condannato, Emanuele mi propina. Stavolta, però, l’arma del martirio si rivela motivo di grazia. Tra poco (Emanuele si spiace, si scusa ma deve proprio scappare) inizia il nuovo episodio. E poi, mi assicura, “lo vedonotutti!”. Tra tutti, i miei fratelli di 10 (e ci può anche stare) e ventiquattro anni (!?!). E così il pasto di quest’oggi è condito da grida atroci, spasimi e tonfi fragorosi provenienti dal televisore. Grazie ad Emanuele (Grazie Emanuele!) oltre quei brandelli di corpi dilaniati mi tocca scorgere i brani laceri di un banale canovaccio: esseri terrestri ed extraterrestri, i primi buoni, gli altri cattivi, tutti dotati di poteri speciali, si contendono, in una lotta corpo a corpo e senza tregua, il dominio del pianeta. In questi duelli sembra riecheggino antichi miti privi, però, di intenti cosmogonici o alcun significato metaforico. Ben più visibile è invece il riflesso di recenti mode edoniste e vuote. Tuttavia, la deformazione dei corpi rappresentati, la loro abnormità ed ipertrofia sono testimonianza della tendenza innata a immaginarsi in una scala più alta, tanto grande da permettere all’uomo di affrontare l’assurdo e l’ignoto.

Poco rumore oggi basta a destarmi dal sonno leggero cui mi ero affidato per sfuggire alle ansie del quotidiano. Non riesco a rendermi conto quanto tempo sia passato e se abbia o no sognato. In quell’istante che esiste tra il sonno e la veglia, però, mi sembra di avere seguito la figura d’un guerriero antico muovere verso un prossimo sole, verso l’orizzonte che chiude la strada; il sole e lui impossibilitati a tornare perché sospesi in quadri dove irrespirabile è l’aria.
Ricordo, ancora oggi vivo, il fascino che, in terza liceo, esercitò su di me, per l’arguzia, Zenone di Elea con i suoi paradossi. Circa dieci anni dopo vedo muoversi, nitidi sul fondo sfocato del dormiveglia, i suoi personaggi appesi come pupi al soffitto della mia stanza; vedo Achille agitarsi scomposto e isolato nello spazio dorato mentre la Tartaruga pervade, con moto quieto, il poco spazio che la circonda e il suo guscio m’appare come un occhio al tempo stesso aperto e chiuso.

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